di Sujen Santini
In un quadro di progressiva globalizzazione degli scambi commerciali il sistema agricolo italiano è strutturalmente ed economicamente insostenibile a confronto con i sistemi agricoli del Nord Europa e dei paesi extracomunitari. Anche le eccellenze alimentari che si ottengono dall’agricoltura nazionale non sembrano ormai più in grado di garantire la redditività per gli imprenditori agricoli. In questo scenario diviene essenziale lo sviluppo di modelli produttivi che possano da un lato valorizzare ulteriormente le produzioni DOP e di nicchia della zootecnia nazionale, e dall’altro distribuiscano il reddito che ne deriva fra tutti i componenti della filiera.
A tal proposito, merita considerazione il comparto del biologico che sta guadagnando un esponenziale interesse da parte di tutti gli attori della filiera agroalimentare. Dimostrazione è stata la partecipazione che si è avuta al convegno “Latte biologico: un’opportunità per l’agricoltura, una risorsa per il territorio”, organizzato dall’Amministrazione Comunale di Cavriana, in collaborazione con Regione Lombardia, la Consulta degli Agrotecnici e il CIS. Le due sale messe a disposizione presso Villa Mirra hanno infatti accolto oltre 250 presenze rappresentate da operatori diversi della filiera, ovvero da professionisti impegnati nella ricerca e nella consulenza di campo, da agricoltori, allevatori a diverso indirizzo produttivo, così come da trasformatori. Particolarmente apprezzati gli interventi dei relatori, Dr. Paolo Di Francesco (Agronomo), Dr. Marcello Volanti (Medico Veterinario), Dr. Donatella Parma (DG Agricoltura – Regione Lombardia), e Dr. Roberto Pinton (Consigliere delegato FederBio). Alla tavola rotonda ha partecipato anche l’Assessore Fava che ha concluso confermando il sostegno della Regione Lombardia per il comparto biologico, mettendo a disposizione 12 milioni di euro per il 2016 e incentivando lo sviluppo di reti efficienti per arrivare al consumatore. Mai come oggi infatti privato e pubblico remano nella stessa direzione, ovvero far convertire le aziende al sistema biologico: il privato come costante crescita di richiesta del mercato in controtendenza con il resto del comparto, nonostante un significativo differenziale di prezzo, e il pubblico attraverso il forte orientamento dei contributi regionali, nazionali ed europei.
Il Ministero Politiche Agricole Alimentari e Forestali ha infatti coordinato la realizzazione di un “Piano strategico nazionale per lo sviluppo del sistema biologico” che è stato approvato in Conferenza Stato Regioni a marzo 2016. Il piano trae origine dall’analisi del contesto programmando 10 azioni strategiche con l’obiettivo di aumentare, da qui al 2020, del 50% della SAU destinata ad agricoltura biologica e del 30% il valore del mercato biologico nazionale. Il Piano prevede azioni trasversali poiché la produzione biologica è un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di filiera agroalimentare, basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e una produzione confacente alle preferenze di taluni consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali. Il metodo di produzione biologico assume pertanto una duplice valenza, provvedendo da un lato a un mercato specifico e, dall’altro, fornendo beni pubblici che contribuiscono alla tutela dell’ambiente, al benessere degli animali e allo sviluppo rurale.
Per questi motivi, la scelta del metodo biologico richiede, in molti casi, un radicale cambiamento di mentalità da parte degli operatori di settore, che devono maturare una più approfondita conoscenza dei cicli biologici di vegetali ed animali, cicli che in questo tipo di agricoltura non possono essere “addomesticati” con l’uso di sostanza chimiche. Ne consegue che il metodo biologico non può essere inteso come il “convenzionale senza la chimica”, ne come il ritorno ad un metodo di coltivazione ed allevamento poco produttivo, ma come un metodo ad alto contenuto di competenza e tecnologia che consenta al sistema di mantenere nel lungo periodo soddisfacenti condizioni ambientali, sociali ed economiche. Gli agricoltori biologici infatti, diversamente da quanti molti credono, appartengono alla fascia più giovane e istruita della categoria: il 65% degli agricoltori biologici italiani ha meno di 50 (contro il 14% della media di categoria), quasi un terzo donne, il 50% con un diploma di scuola superiore e il 17% con una laurea. Il coinvolgimento dei giovani è in linea con l’evoluzione delle aziende: in Italia nel 1990 erano presenti 3.023.344 aziende agricole, nel 2010 1.630.420, ovvero – 46%. Nel 1990 le aziende agricole biologiche in Italia erano 4.189, nel 2010 41.807, ovvero + 898%. Oggi se ne contano quasi 50.000.
Burocrazia:
la tutela del processo Le principali linee guida per l’agricoltura biologica sono contenute nel Reg. CE 834/07, dettate dalla comunità europea per disciplinare la produzione, vegetale e animale, nonché trasformazione ed etichettatura. La normativa è però in continuo aggiornamento e non deve essere vissuta come un ostacolo, ma come uno strumento necessario alla tutela del prodotto finale che è il risultato dell’intera filiera agroalimentare. La complessità dipende quindi dalla peculiarità del sistema biologico, in cui non si attua la certificazione di prodotto ma di processo, a garanzia del rispetto delle norme legislative che lo codificano e di ogni singolo intervento lungo le differenti filiere produttive.
L’alternativa al mais in monocoltura
Convertire i terreni della nostra Pianura Padana, che da anni ospitano in monocoltura mais, è una sfida possibile che però deve passare attraverso la ricostruzione della struttura e fertilità del suolo, al fine di ottenere produzioni soddisfacenti per qualità di foraggio. Ritornare quindi alle rotazioni lunghe, aprire l’orizzonte dell’alimentazione ad altri foraggi, magari meno produttivi, ma di più alto valore nutrizionale. L’agricoltura biologica si basa infatti sulla salvaguardia dei sistemi e dei cicli naturali, con il mantenimento e il miglioramento della fertilità dei suoli, della salute delle acque, delle piante e degli animali, tendendo all’equilibrio tra di essi attraverso tecniche di lavorazione non distruttive, rotazioni colturali, sovesci, fertilizzanti naturali e contenimento delle infestanti senza l’ausilio della chimica. Non si tratta di un ritorno al passato ma di unire la saggezza di altri tempi alle moderne competenze per uscire dalla logica limitata della resa in quintali per ettaro e passare a quella più lungimirante delle unità foraggere per ettaro: le uniche in grado di restituire l’autonomia di approvvigionamento alle aziende zootecniche limitando la necessità di dipendere dai mercati.
Il percorso di conversione
Chi vuole intraprendere il percorso verso la zootecnia biologica deve partire dal presupposto fondamentale che non possono esistere allevamenti senza terra: questo è un punto cardine che vincola in un rapporto di massimo 2UBA/Ha la densità di animali allevabili nel rispetto dei 170 kg di azoto/Ha. Il periodo di conversione prima della certificazione biologica ha durata di due anni per le colture erbacee e di sei mesi per la zootecnia: siccome non può esistere allevamento biologico senza terra biologica il percorso per ottenere latte biologico dura quindi due anni. Le linee guida, contenute nel Reg. 834, per arrivare alla certificazione biologica non sono regole opprimenti che la comunità europea impone agli allevatori, ma è anzi un percorso fondamentale che l’agricoltore deve sfruttare per acquisire le logiche gestionali e organizzare la sua azienda in modo da creare un sistema durevole nel tempo.
L’azienda agricola: un organismo unico e non separabile
L’allevamento biologico si fonda sul reciproco rapporto funzionale tra terreno e animali: il letame, in quanto vivo, è il miglior fertilizzante che ci possa essere, contestualmente il terreno è fondamentale per la produzione di alimenti in qualità e quantità sufficiente a sostenere gli animali che ospita. Questo concetto è una grande opportunità economica e gestionale per l’azienda agricola poiché consente di raggiungere il massimo della autoproduzione aziendale ed è anche un elemento sostanziale che stimola la partecipazione sinergica e l’accordo cooperativo tra agricoltori e allevatori. Infatti la terra non necessariamente deve essere di proprietà, ma sono previsti accordi di cooperazione con altre aziende del comprensorio per quanto riguarda lo smaltimento e l’approvvigionamento di materie prime.
La salutogenesi degli animali
Per l’allevamento biologico non esistono protocolli o linee guida che si possono perpetuare in azienda e diviene quindi indispensabile acquisire competenze che consentano di individuare per ogni specifica realtà le procedure manageriali più idonee. Per questo il sapere della zootecnia biologica è patrimonio di chi la pratica da anni ed è il frutto non della teoria ma dell’esperienza di campo. Esistono però dei capisaldi, o meglio obiettivi, che qualsiasi azienda agricola gestita con metodo biologico deve perseguire e che mirano a raggiungere e mantenere la salutogenesi degli animali. Oggi molte delle nostre energie impiegate nella zootecnia intensiva sono infatti rivolte alla cura delle tecnopatie, ovvero patologie conseguenti alle tecniche di allevamento: perseguire la salute degli animali passa quindi attraverso la riscoperta della zootecnia, ovvero dal greco tecnè, dall’arte del saper allevare. Per far questo bisogna partire dall’etologia dell’animale, sapendo adattare le condizioni di allevamento alle reali necessità e ponendosi in modo flessibile rispetto al loro possibile variare.
Così come per la terra anche per la zootecnia cambiano i paradigmi di efficienza: l’esperienza del convenzionale insegna che usare come parametro i quintali di latte prodotti per lattazione non ha alcuna valenza economica se non rapportati ai costi che questa produzione genera; e sappiamo bene che i principali costi sono imputabili alle tecnopatie e alla rimonta conseguentemente necessaria. Il sistema biologico punta invece sulla longevità, e l’efficienza produttiva si valuta considerando i quintali di latte che una vacca restituisce nella sua vita. Per questo saranno da preferire razze o incroci meno vocati alla produzione di latte ma più rustici e resistenti. Inoltre non dimentichiamo il pascolo che, soprattutto per le manze e vacche in preparazione al parto, non è un problema del regolamento da risolvere, ma una risorsa fondamentale per la salutogenesi degli animali. Aspetto fondamentale è poi l’alimentazione: nessun allevatore può raggiungere un reale successo se non adotta criteri di alimentazione idonei a salvaguardare le caratteristiche di specie dell’animale allevato per raggiungere corretti standard di benessere animale, evitando disordini metabolici e mantenendo efficiente il sistema immunitario. Il regolamento 834 si esprime chiaramente in fatto di alimentazione sostenendo significativamente l’impiego di foraggi aziendali che devono rappresentare almeno il 60% della sostanza secca (fatta eccezione per i primi 90 giorni di lattazione dove è ammesso il 50%).
Valorizzare in razione le foraggere, soprattutto se proteiche, oltre ad essere funzionali alla salutogenesi degli animali lo è anche per l’economia aziendale poiché consente di ridurre al minimo indispensabile la necessità di acquisto di fonti proteiche che rappresentano la principale fonte di costo.